Inaugurazione sede Forza Nuova in via Legnano

Lo sdoganamento dei fascisti in tutta Italia è in allarmante crescita, anche per colpa dell’inerzia piddina nel condannarli, nel perseguirne blandamente le trasgressioni del codice, e spesso senza nemmeno alzare ciglio di fronte alla loro propaganda. questo è il cinismo del Partito Democratico, un soggetto politico ignavo, che riconosce l’utilità delle camice nere nel sedare la rivolta popolare contro le politiche liberiste e europee. Gli ANTIFASCISTI di ogni formazione non disertino le occasioni pubbliche di incontro per denunciare la presenza di questi cani da guardia del padronato!

Di seguito trascriviamo l’appello inoltrato alle altre organizzazioni politiche e sociali del lodigiano a partecipare a un presidio di protesta. Infine riportiamo il nostro intervento al dibattito su REPRESSIONE e FASCISMO tenutosi a Bereguardo (PV), organizzato dalla Rete Antifascista Pavia, sulla scia della campagna “il 5 Novembre C’ero Anch’io”.

Il nostro appello

Vi scriviamo in merito alla scioccante (ma prevedibile) prossima apertura della sede di Forza Nuova a Lodi.
L’inaugurazione avverrà sabato 29 luglio 2017 alle ore 17 in presenza di Roberto Fiore, Segretario Nazionale di FN.

Riteniamo sia un grave atto nella città di Lodi l’apertura di una sede di un partito di chiara ispirazione fascista che ha piú volte dimostrato l’ARROGANTE E SPREZZANTE ODIO PER IL DIVERSO,  per gli omosessuali, gli stranieri e che propaganda una cultura sessista e machista.
UNIRCI per esprimere il NOSTRO RIFIUTO ai fasciti in città. Il nostro sdegno si estenda a tutta la cittadinanza!
È dovere di tutti… IL FASCISMO NON DEVE PASSARE

L’intervento degli Antifa di Lodi a Bereguardo

il tavolo dei relatori della RAP al dibattito sulla Repressione a Bereguardo

Come Antifa di Lodi siamo lieti di accettare questo invito a portare il nostro contributo per un tema così caldo e attuale. Un tema all’ordine del giorno, ormai pane quotidiano della cronaca; non più sfocate immagini di paesi dall’altra parte dell’oceano. Avremmo anzi potuto dire in passato che è proprio questo un mezzo implicito della repressione, in senso più generale, strategico: che non sia evidente, che sembri appannaggio di paesi lontani, magari del terzo mondo, di regimi “dittatoriali”.  Ora invece, lo spettacolo ‘casalingo’ dello scontro diretto tra contestazione e potere costituito lascia spesso indifferenti i cittadini, ormai abituati a questa normalizzazione dei ruoli imposti da organi di informazione complici: “violenti” “antagonisti” “black block” da una parte, e tutori dell’ordine pubblico dall’altra.

Intanto ci presentiamo. A Lodi esistiamo da più di un anno ormai, e siamo partiti subito con un buon nucleo di compagne e compagni, muovendoci innanzitutto nel condannare gli ampi spazi che la giunta cittadina a guida dem lasciava alla propaganda fascista. Nelle aule comunali si son tenute più volte conferenze revisioniste da parte di ex-squadristi riciclatisi romanzieri neri che rivendicano l’esperienza degli anni di piombo. Iniziative, che noi denunciammo puntualmente e senza esitazione, aggravate dall’utilizzo di strutture della collettività. Il partito dell’ex-sindaco Uggetti è lo stesso che oggi candidamente presenta una legge per punire l’apologia di fascismo. Una mera facciata in vista delle elezioni.

La nostra attività si è da subito fondata sulla ricerca di collaborazioni con altri gruppi che praticassero sincero antifascismo, cercando di costruire insieme a questi soggetti percorsi culturali, con l’elaborazione di iniziative volte a rimarcare la necessità di una società inclusiva e plurale, dove il ‘diverso’ possa integrarsi non solo entrando a libro paga del caporalato o facendosi bersaglio delle narrazioni razziste che lo vuole portatore di degrado e criminalità, ma nella condivisione.

E qui veniamo al tema del dibattito odierno in tutta la Penisola, che questa serata vorrebbe, se non già dirimere completamente, per lo meno definirne gli aspetti più attuali, che nei passaparola, nei tam-tam dei social, arrivano a singhiozzi e in profili sfocati e conradditori.

‘Repressione’ ci fa pensare subito al fascismo, categoria storica che ne è diventata l’antonomasia; ma all’oggi non sono certo i gruppi neo-fascisti – se pur in preoccupante ascesa, ancora deboli sul versante istituzionale – a dirigere le più alte cariche istituzionali che con la repressione chiudono il quadro del loro sistema ideologico, oltre che economico. Gli epigoni dei bavagli e delle botte, sono apparati burocratico-politici che si rifanno a ideologie liberali ed europeiste; quell’europeismo che inchioda le nazioni a debiti esorbitanti per affermare il dogma incontestabile dell’Europa Unita. Quanto faccia sorridere questa formula lo sappiamo bene. Quello stesso europeismo che consente al governo di Kiev di assoldare squadroni nazisti che assaltano la sede dei sindacati di Odessa. Quella stessa ‘Europa Unita’, ‘Europa dei popoli’, che chiude le frontiere allo spostamento degli uomini, ormai sempre meno importanti delle merci; ma quegli uomini fuggono da un guerra e disperazione su cui si fonda il nostro sistema economico e culturale, fuggono da un contesto socio-economico messo in ginocchio dal neo-colonialismo.

Ora, sappiamo bene come le tessere si mettano in una disposizione coerente, perché all’immigrato si ricongiungono due ataviche paure: quella economica e quella del terrorismo. L’una originantesi dal fatto che venga a crearsi il cosiddetto esercito di riserva del lavoro sottopagato, degradante, schiavistico; l’altra ci porta a una totale disgregazione del tessuto sociale, che impedisce il costituirsi di un movimento coeso e compatto di sconfessione delle istituzioni.

La macchina securitaria ha esordito infatti con l’escalation degli attentati terroristici, e lo spettro dello jihadista nascosto tra i migranti ha imposto ai governi europei un salto di qualità nel setacciare qualsiasi zona grigia dove potesse nascere il sospetto che l’Isis avesse piazzato un proprio uomo (non ci dilungheremo qui a ricordare da cosa si origini daesh, da quali piani destabilizzanti). La situazione ha offerto il pretesto per stringere ancora più la morsa del controllo e della deterrenza verso qualsiasi fenomeno eversivo, o che mettesse in discussione il mantra europeo, oggi rinforzato dall’ascesa poderosa di Macron presso i nostri vicini d’oltralpe.

Coincidenza o meno, la puntualità del fenomeno terroristico mette in mano delle armi agli organi repressivi nel momento in cui la crisi del capitale finanziario si è completamente sviluppata, e i cani da guardia devono fronteggiare un poderoso malcontento popolare.

Naturalmente non ci sono soltanto i manganelli. Le forme ‘fredde’ di repressione si affinano nelle aule parlamentari e ministeriali, passando da una competenza all’altra e da un ministero all’altro. Se riducessimo tutto il potere di controllo e prevenzione dello Stato all’operato di Marco Minniti peccheremmo di ingenuità, poiché quest’ultima gestisce in fin dei conti solo il tratto finale, (col suo pur efficientissimo decreto e col DASPO urbano, che puntano ad soffocare in anticipo potenziali tensioni, in ambiti però previsti dalla Costituzione) di fenomeni di aggregazione in funzione contestativa. Oggi, la repressione è in mano ad ogni colonnello di questo governo che presieda a un settore strategico, come il ministro Delrio per i trasporti che auspicò meno di un mese fa l’istituzione di regole più intransigenti sugli scioperi nel suo ambito di competenza, che potessero essere indetti da sigle sindacali ‘davvero rappresentative’. Da più parti dovettero ricordargli che , costituzionalmente, lo sciopero è una decisione individuale che si prende collettivamente, e che sono i lavoratori a metterlo in atto, non i sindacati.

Perché finiamo a parlare di scioperi di lavoratori, cari compagne e compagni? Perché il nocciolo è qui. L’aria che tira sta pesantemente cambiando; i compagni che si recano a questi scioperi, vengono sovente seguiti al termine dei cortei e identificati dagli agenti della digos, senza bisogno di alcuna causa.

Abbiamo da un lato un ministro a cui vengono bloccati i trasporti e invòca la repressione di attività sindacali, dall’altro un’autentica persecuzione, un fucile spianato su chiunque non sia uscito di casa per la sola necessità lavorativa o per il procacciamento di banale intrattenimento. Da Torino giunge la notizia dell’arresto immotivato della giovane Maya, attivista antifascista e NoTav, trattenuta, interrogata e pestata, senza valido motivo. Ad Inzago l’anpi multata pesantemente perché anticipa una manifestazione di un quarto d’ora. E a Pavia sappiamo bene cosa costi l’antifascismo militante.

Probabilmente ci renderemo conto tra pochi anni che se non riusciremo ad integrare le lotte in una sintesi che testimoni ad ogni passo una determinata appartenenza sociale (e perciò politica), una consapevolezza che investa nel riconquistare all’antifascismo e alla contestazione dei ‘grandi’ arroccati nei palazzi, il mondo del lavoro, integralmente nella sua attuale strutturazione e nelle sue rivendicazioni, non riusciremo a fronteggiare, noi, un popolo frammentato e diviso, il dilagante neo-fascismo, e i colpi sempre più sferzanti alle libertà civili, corridoio per le libertà sociali che tanto sangue venne versato per sancirle.

Resistere a questa fase repressiva è nostro compito, ma non potremmo riuscirvi slegati dal mondo del lavoro che alza la testa, senza intrecciare le nostre lotte più convintamente con le rivendicazioni popolari di casa e lavoro per tutti.

 

 

Antifa Lodi

Foodora: “lavoretti” e atomizzazione del lavoro

La vicenda che contrappone i lavoratori Foodora alla multinazionale tedesca che persegue i propri interessi in spregio, come spesso accade, della dignità lavorativa e marciando su zone grige legislative, vede intensificarsi nei giorni recenti attacchi e contrattacchi nel contesto milanese ma, da parte dell’azienda, guardandosi bene dallo scontro diretto e facendo mancare sotto i piedi dei lavoratori il terreno essenziale per il proseguimento della lotta: l’attività lavorativa. È stato negato dall’azienda d’aver ‘bannato’ i riders dalla piattaforma on-line con cui accedere alle consegne. Ma di fatto questi non stanno piú lavorando dando seguito alla piú rodata tattica di reazione contro rivendicazioni salariali , prediletta dalla dirigenza, che consiste nel tergiversare nelle risposte, rendersi irreperibili, richiedere meno prestazioni per dividere il gruppo. Il collettivo va formandosi in una circostanza innovativa nel panorama occupazionale, in preda alla legge della giungla del lavoro a bassa o nulla qualificazione, dove si inoltrano enormi schiere di giovani e meno giovani.

La caratteristica del lavoro, a basso costo e in condizioni altamente disagianti per l’esposizione alle intemperie, il tipo di prestazione lavorativa che non considera il grado di energia fisica messa in campo dal lavoratore, l’assenza totale di tutele, l’esposizione ai più svariati rischi tra cui rapina, danneggiamento, usura del mezzo di trasporto senza poter contare su convenzioni con le officine della zona; sono tutti aspetti che rendono intollerabile il pagamento a cottimo o Co.Co.Co., peraltro piuttosto basso.

Da un anno pressappoco si è sviluppato il caso a Torino, dove lo stato di agitazione pretendeva equiparazioni salariali ai livelli milanesi. Ora nel capoluogo piemontese la situazione è in stallo, mentre è a Milano che la lotta prosegue.

La situazione che stanno vivendo questi lavoratori ci impone un ragionamento più ampio del fatto in sé, ed una lettura del fenomeno alla luce di una generale deregolamentazione lavorativa, dello svilimento del lavoratore stesso come istituto fondante della società, particolamente nel lavoro a bassa qualifica, dove una parte ‘eletta’ della società esprime tutto il suo disprezzo verso il lavoratore dipendente – che lo sia ufficialmente o di fatto come nel caso dei riders foodorini – relegandolo a impieghi saltuari, spesso abbrutenti, o comunque intensivi e in ogni caso mal retribuiti. Il refugium peccatorum dei managers dell’azienda di food delivery con sede a Berlino è stato l’impossibità di dirimere loro personalmente le problematiche che ponevano i fattorini, quando iniziavano ad avanzare richieste collettive, eleborate dopo lunghi e difficili confronti tra gruppi di whatsapp, riunioni in strutture messe a disposizione da centri sociali, pizzate fra colleghi, passaparola di condotte da mantenere. La grande risposta di questi giovani rampanti amministratori era la “flessibilità” a cui adattarsi. Già, perché è inevitabile un po’ di senso di adattamento quando non sei ufficialmente un dipendente di un azienda che può semplicemente decidere di non farti più  accedere alle consegne; del resto è un ‘lavoretto’, la traduzione più calzante per tutti quegli impieghi a basso o bassissimo salario denominati dall’espressione anglosassone di gig, oggi sulla bocca di molti, qui in Italia, proprio per la vicenda dei food delivery e per il caso di Uber.

È intuitivo che un’economia che poggi sui lavoretti non possa ambire a grandi traguardi di produzione, ma non è il tipo di lavoro in questione a stare al centro del discorso, ma il fatto che diventi un pericoloso paradigama su cui impostare il rapporto lavorante/datore in maniera sempre più anonima, deresponsabilizzata, di cui il vaucher è un rudimentale antecedente; invertendo il processo opposto innestato nel corso del Novecento, tale per cui gli scioperi operai tendevano a obbligare la classe imprenditoriale ad accettare le loro rivendicazioni, ora si cerca di annacquare questa contrapposizione, annebbiando così la coscienza che ha di sé il lavoratore, e così i suoi obiettivi. La comune contrattazione, il posto di lavoro dipendente, la categorie definita, erano elementi di aggregazione importanti che permettevano alla classe operaia di avere una base solida su cui lottare. È per questo che le turbolenti relazioni aziendali dei riders, che sembrano, agli occhi dei dirigenti, incappati quasi per caso in quel gig, in quel ‘lavoretto’, assumono una carica pioneristica, rivoluzionaria e formativo per noi tutti, che abbiamo il dovere di ascoltare la loro esperienza e le modalità della loro ostinata autorganizzazione

–  Foodora è un lavoro che ci piace fare, non sarà quello che faremo per tutta la vita ma vale la pena di provare a migliorare le condizioni lavorative[1] – Parola di riders, una affermazione che esprime il senso stesso di lotta, mai individualistica, ma intesa sempre come movimento collettivo, – del presente come del futuro – contro l’atomizzazione del lavoro implicita in queste categorie lavorative, arma strategica contro la rivendicazione dei propri diritti su ampia scala.

 

Ands Morgante

 

[1] http://www.clashcityworkers.org/lotte/cosa-si-muove/2508-torino-foodora-lotta-origini-sviluppi.html