Biblioteche pubbliche universitarie: estrema risorsa del libero cittadino

Non si pretende qui di dirimere definitivamente le questioni inerenti alle proteste studentesche di Bologna, pur ritenendo di non potersi nascondere dietro a un dito: chi scrive si sente in totale sintonia politica e culturale coi “ragazzi del 36”, e ritiene che le loro rivendicazioni siano di importante rilievo storico e sociale. Ci si vorrebbe limitare ad offrire una visione che è senz’altro schiettamente di parte, ma che non si rinuncia a farle varcare i confini di una presunta subcultura dove percorsi sociali e politici che divergono dal pensiero dominante vengano facilmente liquidati.
Chiunque abbia provato a far politica in università condividerà i medesimi ricordi di amarezza, frustrazione, quando non sconfinino addiruttura nella rabbia e in un senso di impotenza dove si osserva, tornando a casa e facendo la conta dei volantini effettivamente distribuiti, fluire alla deriva qualsiasi possibilità di percorsi culturali innovativi. Viviamo giorni in cui la maggioranza degli studenti allontana l’attivista con fiera ostentazione della propria indifferenza; si circonda prevalentemente di indifferenti, e concepisce l’ambiente universitario come un vuoto corridoio da attraversare a passo svelto e con una chiara idea di quel che debba fare: presso la porta 7 ritirare il modulo B, presentare il documento allo sportello 9 e consegnare la marca da bollo.
La politica in università si presenta solitamente in due forme: i gruppi facente riferimento a partiti politici nazionali, e dai quali traggono sostentamento, e le forze politiche di ispirazione anarchica o comunista (per non parlare dei gruppi neo-fascisti) per andare con l’accetta, che oggi non hanno corrispettivi nazionali di peso dai quali farsi sostenere e che si trovano a far valere le proprie istanze unicamente con le proprie forze. Nell’ateneo i rapporti di forza tra queste categorie sono le stesse che si sono affermate a livello nazionale (chi parla fa riferimento prevalentemente alla condizione della Statale di Milano, ma, con le dovute eccezioni, si tratta di una situazione piuttosto uniforme su tutto il territorio nazionale, ed il capoluogo lombardo ha da sempre avuto ruolo di laboratorio politico del nostro Paese). In questo contesto si affrontano molte più lotte di quello che i media raccontano, quali il contrasto a varie forme di privatizzazioni dei servizi agli studenti, le condizioni di lavoro del personale universitario, la concessione di spazi per la pratica politica, ecc., e non tutte giungono ad aver la risonanza dello sgombero della biblioteca di via Zamboni; quando succede è perché si è oltrepassato il segno, e il clamore non si può tacere. Potremmo anche dire che la notizia di per sé non è eccezionale, ma si sono aggiunti elementi nuovi che arricchiscono la vicenda di tinte più fosche e avvilenti. Non abbiamo più a fronteggiarsi la dicotomia collettivi/celere o collettivi/questore o collettivi/rettore: oggi, più che in altre occasioni e in maniera più definita, si è aggiunto una terza categoria, la cui azione ferisce più a fondo delle solite derubricazioni a ‘vandali’ e ‘viziati scappati di casa’ dei nostri cari giornalisti: gli studenti che prendono le distanze dalle proteste. Era inevitabile che quella enorme massa passiva si convogliasse sempre più convintamente sui binari del bipolarismo politico, intriso di un senso di inevitabilità di una gestione unilaterale dall’alto, e i provvedimenti delle cariche istituzionali si muovono al di fuori di qualsiasi emendabilità; era già successo, ma il fatto sta assumendo toni sempre più esasperati e divaricatori di una potente categoria sociale, che in passato aveva ottenuto molto e, come il modo lavorativo “là fuori”, sta restituendo tutto, con un ritrovato senso di contrizione e lealtà verso l’ordine costituito. Era forse proprio questo un elemento che da tempo si aspettava come campanello d’allarme di una situazione fuori controllo? Ora i ragazzi non evitano più la politica, ma sono perfettamente organici ai sistemi bipolari affermati a livello nazionale, al punto da sentirsi arruolati alla causa del pensiero dominante. Non era necessario scoprire che un epigono della “controprotesta” fosse in quota PD, che, da portentosa arrampicatrice, cavalca i fatti a proprio piacimento, tanto che “degrado”, “spaccio”, “collettivi”, “devastazione” si trovano curiosamente in una puntuale e stretta prossimità quando riassume il quadro della triste vicenda.
Ma ora dobbiamo domandarci, chi rappresentano questi ragazzi per bene? Che si dissociano, che si ribellano al ‘degrado’, che vorrebbero studiare per azzuffarsi al buffet delle grandi occasioni che questo Paese ha da offrire? Possiamo seriamente dire che dall’anonimato che hanno sempre preteso dalla vita universitaria, dove passano trafelati e nervosi, si possa dedurre un’identità politica degna di nota? Possiamo ipotizzare nelle loro parole una prospettiva del complesso accademico che sappia di vocazione collaborativa, inclusiva, portatrice di innovazione e promesse per tutti e tutte? Possono costoro definirsi persone che vivono l’università come un luogo di convergenza di energie, come una casa del viver civile autentico, e inesauribile promotore di coesione sociale al di là degli stretti confini suggeriti (e imposti) dai rapporti di produzione economica?
Lasciandovi riflettere su queste domande offro una visione. Biblioteche pubbliche, siano esse civiche o statali, come luogo strategico della resistenza sociale, non piegate e costrette allo squallore della loro funzionalità manifesta, no, perché in biblioteca non si vada a studiar soltanto! La cultura non è lettera morta, ma il frutto del nostro viver civile e sociale. In una biblioteca si chiacchera a bassa voce con un amico, o con un anziano un po’ strano che si reca lì da anni a leggersi i propri volumi, che durante il giorno non sa dove andare; e non c’è bisogno che vada da un’altra parte! Non andiamo, né siamo mai andati, né andremo, in biblioteca con una formale dichiarazione di intenti, né vi ci si reca con un pieno istituto formale, giuridico; morale. E, perché no, si possano anche distribuire volantini e, perché no, si proclami giorno di assemblea pubblica, e si diventi consapevole del valore di un luogo pubblico, non più come sottrazione da tutti gli altri luoghi con scopo lucrativo, ma come affermazione di una dignità popolare, in grado di gestire le attività di base della struttura ma anche dove sviluppare la propria coscienza e la propria azione collettive.

Ands Morgante