Foodora: “lavoretti” e atomizzazione del lavoro

La vicenda che contrappone i lavoratori Foodora alla multinazionale tedesca che persegue i propri interessi in spregio, come spesso accade, della dignità lavorativa e marciando su zone grige legislative, vede intensificarsi nei giorni recenti attacchi e contrattacchi nel contesto milanese ma, da parte dell’azienda, guardandosi bene dallo scontro diretto e facendo mancare sotto i piedi dei lavoratori il terreno essenziale per il proseguimento della lotta: l’attività lavorativa. È stato negato dall’azienda d’aver ‘bannato’ i riders dalla piattaforma on-line con cui accedere alle consegne. Ma di fatto questi non stanno piú lavorando dando seguito alla piú rodata tattica di reazione contro rivendicazioni salariali , prediletta dalla dirigenza, che consiste nel tergiversare nelle risposte, rendersi irreperibili, richiedere meno prestazioni per dividere il gruppo. Il collettivo va formandosi in una circostanza innovativa nel panorama occupazionale, in preda alla legge della giungla del lavoro a bassa o nulla qualificazione, dove si inoltrano enormi schiere di giovani e meno giovani.

La caratteristica del lavoro, a basso costo e in condizioni altamente disagianti per l’esposizione alle intemperie, il tipo di prestazione lavorativa che non considera il grado di energia fisica messa in campo dal lavoratore, l’assenza totale di tutele, l’esposizione ai più svariati rischi tra cui rapina, danneggiamento, usura del mezzo di trasporto senza poter contare su convenzioni con le officine della zona; sono tutti aspetti che rendono intollerabile il pagamento a cottimo o Co.Co.Co., peraltro piuttosto basso.

Da un anno pressappoco si è sviluppato il caso a Torino, dove lo stato di agitazione pretendeva equiparazioni salariali ai livelli milanesi. Ora nel capoluogo piemontese la situazione è in stallo, mentre è a Milano che la lotta prosegue.

La situazione che stanno vivendo questi lavoratori ci impone un ragionamento più ampio del fatto in sé, ed una lettura del fenomeno alla luce di una generale deregolamentazione lavorativa, dello svilimento del lavoratore stesso come istituto fondante della società, particolamente nel lavoro a bassa qualifica, dove una parte ‘eletta’ della società esprime tutto il suo disprezzo verso il lavoratore dipendente – che lo sia ufficialmente o di fatto come nel caso dei riders foodorini – relegandolo a impieghi saltuari, spesso abbrutenti, o comunque intensivi e in ogni caso mal retribuiti. Il refugium peccatorum dei managers dell’azienda di food delivery con sede a Berlino è stato l’impossibità di dirimere loro personalmente le problematiche che ponevano i fattorini, quando iniziavano ad avanzare richieste collettive, eleborate dopo lunghi e difficili confronti tra gruppi di whatsapp, riunioni in strutture messe a disposizione da centri sociali, pizzate fra colleghi, passaparola di condotte da mantenere. La grande risposta di questi giovani rampanti amministratori era la “flessibilità” a cui adattarsi. Già, perché è inevitabile un po’ di senso di adattamento quando non sei ufficialmente un dipendente di un azienda che può semplicemente decidere di non farti più  accedere alle consegne; del resto è un ‘lavoretto’, la traduzione più calzante per tutti quegli impieghi a basso o bassissimo salario denominati dall’espressione anglosassone di gig, oggi sulla bocca di molti, qui in Italia, proprio per la vicenda dei food delivery e per il caso di Uber.

È intuitivo che un’economia che poggi sui lavoretti non possa ambire a grandi traguardi di produzione, ma non è il tipo di lavoro in questione a stare al centro del discorso, ma il fatto che diventi un pericoloso paradigama su cui impostare il rapporto lavorante/datore in maniera sempre più anonima, deresponsabilizzata, di cui il vaucher è un rudimentale antecedente; invertendo il processo opposto innestato nel corso del Novecento, tale per cui gli scioperi operai tendevano a obbligare la classe imprenditoriale ad accettare le loro rivendicazioni, ora si cerca di annacquare questa contrapposizione, annebbiando così la coscienza che ha di sé il lavoratore, e così i suoi obiettivi. La comune contrattazione, il posto di lavoro dipendente, la categorie definita, erano elementi di aggregazione importanti che permettevano alla classe operaia di avere una base solida su cui lottare. È per questo che le turbolenti relazioni aziendali dei riders, che sembrano, agli occhi dei dirigenti, incappati quasi per caso in quel gig, in quel ‘lavoretto’, assumono una carica pioneristica, rivoluzionaria e formativo per noi tutti, che abbiamo il dovere di ascoltare la loro esperienza e le modalità della loro ostinata autorganizzazione

–  Foodora è un lavoro che ci piace fare, non sarà quello che faremo per tutta la vita ma vale la pena di provare a migliorare le condizioni lavorative[1] – Parola di riders, una affermazione che esprime il senso stesso di lotta, mai individualistica, ma intesa sempre come movimento collettivo, – del presente come del futuro – contro l’atomizzazione del lavoro implicita in queste categorie lavorative, arma strategica contro la rivendicazione dei propri diritti su ampia scala.

 

Ands Morgante

 

[1] http://www.clashcityworkers.org/lotte/cosa-si-muove/2508-torino-foodora-lotta-origini-sviluppi.html

Biblioteche pubbliche universitarie: estrema risorsa del libero cittadino

Non si pretende qui di dirimere definitivamente le questioni inerenti alle proteste studentesche di Bologna, pur ritenendo di non potersi nascondere dietro a un dito: chi scrive si sente in totale sintonia politica e culturale coi “ragazzi del 36”, e ritiene che le loro rivendicazioni siano di importante rilievo storico e sociale. Ci si vorrebbe limitare ad offrire una visione che è senz’altro schiettamente di parte, ma che non si rinuncia a farle varcare i confini di una presunta subcultura dove percorsi sociali e politici che divergono dal pensiero dominante vengano facilmente liquidati.
Chiunque abbia provato a far politica in università condividerà i medesimi ricordi di amarezza, frustrazione, quando non sconfinino addiruttura nella rabbia e in un senso di impotenza dove si osserva, tornando a casa e facendo la conta dei volantini effettivamente distribuiti, fluire alla deriva qualsiasi possibilità di percorsi culturali innovativi. Viviamo giorni in cui la maggioranza degli studenti allontana l’attivista con fiera ostentazione della propria indifferenza; si circonda prevalentemente di indifferenti, e concepisce l’ambiente universitario come un vuoto corridoio da attraversare a passo svelto e con una chiara idea di quel che debba fare: presso la porta 7 ritirare il modulo B, presentare il documento allo sportello 9 e consegnare la marca da bollo.
La politica in università si presenta solitamente in due forme: i gruppi facente riferimento a partiti politici nazionali, e dai quali traggono sostentamento, e le forze politiche di ispirazione anarchica o comunista (per non parlare dei gruppi neo-fascisti) per andare con l’accetta, che oggi non hanno corrispettivi nazionali di peso dai quali farsi sostenere e che si trovano a far valere le proprie istanze unicamente con le proprie forze. Nell’ateneo i rapporti di forza tra queste categorie sono le stesse che si sono affermate a livello nazionale (chi parla fa riferimento prevalentemente alla condizione della Statale di Milano, ma, con le dovute eccezioni, si tratta di una situazione piuttosto uniforme su tutto il territorio nazionale, ed il capoluogo lombardo ha da sempre avuto ruolo di laboratorio politico del nostro Paese). In questo contesto si affrontano molte più lotte di quello che i media raccontano, quali il contrasto a varie forme di privatizzazioni dei servizi agli studenti, le condizioni di lavoro del personale universitario, la concessione di spazi per la pratica politica, ecc., e non tutte giungono ad aver la risonanza dello sgombero della biblioteca di via Zamboni; quando succede è perché si è oltrepassato il segno, e il clamore non si può tacere. Potremmo anche dire che la notizia di per sé non è eccezionale, ma si sono aggiunti elementi nuovi che arricchiscono la vicenda di tinte più fosche e avvilenti. Non abbiamo più a fronteggiarsi la dicotomia collettivi/celere o collettivi/questore o collettivi/rettore: oggi, più che in altre occasioni e in maniera più definita, si è aggiunto una terza categoria, la cui azione ferisce più a fondo delle solite derubricazioni a ‘vandali’ e ‘viziati scappati di casa’ dei nostri cari giornalisti: gli studenti che prendono le distanze dalle proteste. Era inevitabile che quella enorme massa passiva si convogliasse sempre più convintamente sui binari del bipolarismo politico, intriso di un senso di inevitabilità di una gestione unilaterale dall’alto, e i provvedimenti delle cariche istituzionali si muovono al di fuori di qualsiasi emendabilità; era già successo, ma il fatto sta assumendo toni sempre più esasperati e divaricatori di una potente categoria sociale, che in passato aveva ottenuto molto e, come il modo lavorativo “là fuori”, sta restituendo tutto, con un ritrovato senso di contrizione e lealtà verso l’ordine costituito. Era forse proprio questo un elemento che da tempo si aspettava come campanello d’allarme di una situazione fuori controllo? Ora i ragazzi non evitano più la politica, ma sono perfettamente organici ai sistemi bipolari affermati a livello nazionale, al punto da sentirsi arruolati alla causa del pensiero dominante. Non era necessario scoprire che un epigono della “controprotesta” fosse in quota PD, che, da portentosa arrampicatrice, cavalca i fatti a proprio piacimento, tanto che “degrado”, “spaccio”, “collettivi”, “devastazione” si trovano curiosamente in una puntuale e stretta prossimità quando riassume il quadro della triste vicenda.
Ma ora dobbiamo domandarci, chi rappresentano questi ragazzi per bene? Che si dissociano, che si ribellano al ‘degrado’, che vorrebbero studiare per azzuffarsi al buffet delle grandi occasioni che questo Paese ha da offrire? Possiamo seriamente dire che dall’anonimato che hanno sempre preteso dalla vita universitaria, dove passano trafelati e nervosi, si possa dedurre un’identità politica degna di nota? Possiamo ipotizzare nelle loro parole una prospettiva del complesso accademico che sappia di vocazione collaborativa, inclusiva, portatrice di innovazione e promesse per tutti e tutte? Possono costoro definirsi persone che vivono l’università come un luogo di convergenza di energie, come una casa del viver civile autentico, e inesauribile promotore di coesione sociale al di là degli stretti confini suggeriti (e imposti) dai rapporti di produzione economica?
Lasciandovi riflettere su queste domande offro una visione. Biblioteche pubbliche, siano esse civiche o statali, come luogo strategico della resistenza sociale, non piegate e costrette allo squallore della loro funzionalità manifesta, no, perché in biblioteca non si vada a studiar soltanto! La cultura non è lettera morta, ma il frutto del nostro viver civile e sociale. In una biblioteca si chiacchera a bassa voce con un amico, o con un anziano un po’ strano che si reca lì da anni a leggersi i propri volumi, che durante il giorno non sa dove andare; e non c’è bisogno che vada da un’altra parte! Non andiamo, né siamo mai andati, né andremo, in biblioteca con una formale dichiarazione di intenti, né vi ci si reca con un pieno istituto formale, giuridico; morale. E, perché no, si possano anche distribuire volantini e, perché no, si proclami giorno di assemblea pubblica, e si diventi consapevole del valore di un luogo pubblico, non più come sottrazione da tutti gli altri luoghi con scopo lucrativo, ma come affermazione di una dignità popolare, in grado di gestire le attività di base della struttura ma anche dove sviluppare la propria coscienza e la propria azione collettive.

Ands Morgante